La mia prima volta a New York è stata a febbraio 2000. Precisamente, sono partita il 6 febbraio, conservo ancora i biglietti di quell’avventura attesa da sempre. Non sapevo che quel viaggio mi avrebbe cambiato la vita e stravolto l’esistenza talmente tanto che non avrei più guardato nulla con gli stessi occhi.

Il bello di ogni partenza è quel senso di totale inconsapevolezza degli sguardi, delle emozioni, dei pensieri, dei gesti che non saranno più gli stessi una volta tornato. Prima dell’America, credevo che il mondo fosse la mia piccola realtà del quotidiano, dove il cerchio non è che un cerchio e tutto gravita attorno a mi sveglio-respiro-lavoro-mangio-dormo- mi sveglio. Ho scoperto, invece, che questa grande commedia, talvolta tragedia che è la vita, ha infiniti atti e che l’unico modo per gustarla fino in fondo non è essere giù ad applaudire, ma sul palco ad improvvisare.

Con il cuore in gola e una manciata di aspettative sono salita su quell’aereo intercontinentale, così grande e ancora così vuoto all’epoca. Non eravamo nell’era dei viaggi per tutti, quindi era normale che gli aerei non fossero pieni, infatti, più volte quando viaggiavo in quegli anni, mi facevo la tratta distesa sui tre sedili e dormivo, cosa quasi impensabile adesso. Scrivo e ripercorro ogni secondo, a tratti mi fermo perché sento ancora il cuore che accelera i battiti come quel giorno. Era proprio il mio nome quello sul biglietto con destinazione New York? Ero proprio io quella che stava per fare un salto nel sogno più ambito di sempre? Quel volo mi è sembrato non finire mai, sospesa tra cielo e mare mi perdevo nel blu finché ho visto sotto avvicinarsi una terra diversa dalla mia.
Avrei visto la Statua della Libertà, l’Empire State Building, le Twin Towers. Ci sarei anche salita sopra. Avrei fotografato la skyline più ambita dai fotografi con la mia vecchia macchina fotografica, dotata di rullino da portare a sviluppare perché a quei tempi l’era del digitale era solo un miraggio e i social un’utopia. Avrei mangiato hot dog e hamburger e sarei uscita con i sandali in inverno perché tanto lì nessuno ti guarda. Avrei percorso le vie di Central Park, pensando di essere in un film. La ragazza nessuno, per un attimo sarebbe entrata nei panni dell’eroina americana.

Tutti questi pensieri attraversavano la mia mente tra nuvole bianche e cinture di sicurezza allacciate, pronti ad atterare. Welcome to the United States recitava un cartello. Presa la valigia, uscita e la fila di taxi che attendeva i viaggiatori come da copione era fuori dall’aeroporto. Gli americani ci tengono alle file, mi sono messa anche io ad aspettare il mio turno. Un salto e via, verso la Grande Mela, in midtown Manhattan dove si trovava il mio hotel. Poi, finalmente, la mia prima uscita. Alloggiavo a pochi metri dalla Fifth Avenue e in un attimo mi trovai proprio nella 34esima strada. Osservavo il traffico della città, qualcuno che tentava di fermare un taxi agitando la mano, i tombini che fumavano – e fumavano sul serio, non erano un’invenzione cinematografica! Camminavo tra negozi di souvenir, di elettronica, lussuosi marchi internazionali e catene di fast food. Non capivo più niente. Ricordo come se fosse ieri il pensiero di quel preciso istante: nella mia mente hanno iniziato a volteggiare tutti i paesi del mondo con le loro abitudini, le loro radici culturali, i loro costumi.

Ricordo di aver pensato che mentre a New York era pomeriggio, in Italia stavano andando a dormire, in Giappone si stavano svegliando e che mentre lì era la patria dei Levis e delle Nike in altre parti del mondo usavano quei loro tipici costumi che non sapevo neanche come si chiamassero perché non c’ero ancora stata. È stato in quel momento che qualcosa si è fatto spazio dentro di me, un desiderio che da piccola scintilla si è incendiato e non mi ha permesso più di trovare pace, di stare ferma in un unico posto senza che avessi nostalgia del mondo, anche di quello che non avevo visto, soprattutto di quello che dovevo ancora vedere! Questo è l’unico modo che conosco di spiegarlo, attraverso la scrittura i miei ricordi prendono forma e così le emozioni, è la mia corsia preferenziale che spero arrivi dritta a chi mi legge. Dopo una settimana a New York sono partita per proseguire il mio viaggio alla volta di San Francisco e ho pianto tanto, ma tanto che non riesco a ricordare quando ho smesso. Nel taxi che mi portava verso l’aeroporto, ascoltavo una canzone dei Bee Gees “How deep is your love” e ancora oggi quando la sento vengo catapultata lì. La storia da qui in poi mi vede ritornare diverse volte a New York, in compagnia, ma anche da sola, per esplorarla in lungo ed in largo, sentirmi a casa e riprovare quella sensazione che nessun’altra città mi ha mai dato: la voglia di liberarmi da ogni condizionamento e vivere quello che voglio, non quello che devo. Nel 2021 ci sono tornata per la 18esima volta, perché chi lo ha detto che i sogni si devono realizzare una volta soltanto? Think out of the box. Allacciate le cinture, tra poco si parte.
Se ti è piaciuto questo articolo allora ti consigliamo di dare un’occhiata alla rubrica personale di Oriana: “PENSIERI A BORDO STRADA”.
