Geishe Gion a Kyoto dove vederle in Giappone

La fragile bellezza di Kyoto

Guardò l’orologio appeso al muro, iniziava a farsi tardi. “Mitsuko, farai tardi!” disse Midori mentre prendeva l’obya e gliela stringeva forte in vita. “Mi stai facendo male” esclamò lei. “La vita ha sempre una parte di dolore, bambina mia. Non devi mai dimenticarlo.

“Non è più come una volta, Mitsuko” disse l’okasan affacciandosi alla piccola finestra e richiudendo tempestivamente le tendine. “Qui è tutto cambiato, non c’è più tempo per l’arte. Noi resistiamo in un mondo che cambia e vuole inghiottirci, come la folla di turisti che da quest’ora inizia ad occupare tutto il quartiere. Ma dobbiamo rassegnarci che non è più il nostro tempo”.

Mitsuko la guardò con i suoi occhi grandi e scuri mentre davanti allo specchio cercava di infilare i kanzashi nei capelli pensando alla performance di quella sera. Si soffermò in silenzio a guardare il viso solcato di rughe di  Midori. Ogni ruga raccontava una storia antica, parlava di una muta malinconia rimasta incastrata tra quello che era stato e una nuova realtà che faceva fatica ad accettare.

Restava quasi sempre all’interno dell’okiya  per poter ricordare il tempo che fu e nonostante ripetesse incessantemente come una filastrocca che bisognava rassegnarsi al cambiamento, nel suo cuore ardeva un fuoco che non voleva spegnersi. Le poche volte che usciva per il quartiere di Gion, tornava arrabbiata e faceva fatica a tenere a freno le emozioni. “Hanno trasformato questo posto in un circo, siamo diventate un fenomeno da baraccone.”

Tante okiya storiche sono state trasformate in negozi di souvenir oppure in ristoranti acchiappa turisti. Non accetterò mai di trasformare la nostra casa in uno spettacolo da quattro soldi”. Ogni volta che sentiva questo discorso Mistsuko abbassava lo sguardo, capendo solo a metà il significato di quelle parole. La sua giovane età non le permetteva di comprendere fino in fondo  cosa intendesse. Quando aveva messo piede lì per la prima volta, iniziavano ad esserci già le folle di curiosi che volevano ad ogni costo vedere una geisha.

Si appostavano per ore per le vie del quartiere con macchine fotografiche, telefonini e telecamere per attendere il momento in cui uscivano e immortalarle. Negli ultimi anni la situazione era però degenerata e non era raro che una geisha o una maiko venisse presa d’assalto contro la sua volontà solo per riuscire a strapparle una foto. Avevano dovuto chiedere aiuto alle autorità competenti ed era da poco in vigore una legge che vietava di fotografare nelle strade private. Ovunque c’erano cartelli che dicevano “Non sedersi” oppure “Non toccare” o ancora “Non appoggiarsi”.

La magia che ancora quei luoghi sprigionavano era ancora godibile alle prime luci dell’alba, quando tutti dormivano. Mitsuko provò per un attimo a mettersi nei panni di Midori, immaginò di essere protagonista di quel periodo di splendore dove una geisha aveva ancora quell’onore e quel rispetto e dove le leggi dure dell’okiya erano comunque meno dure dell’onore di entrarci. Continuava a guardarsi allo specchio osservando il suo viso truccato e non poté fare a meno di pensare a quando sarebbe diventata vecchia. Cosa avrebbero raccontato le sue rughe? Si convinse che ad un certa età puoi essere fiera del tuo aspetto decadente solo se ha delle storie intense da raccontare.

Guardò l’orologio appeso al muro, iniziava a farsi tardi. “Mitsuko, farai tardi!” disse Midori mentre prendeva l’obya e gliela stringeva forte in vita. “Mi stai facendo male” esclamò lei. “La vita ha sempre una parte di dolore, bambina mia. Non devi mai dimenticarlo. Devi convivere con questo dolce amaro riuscendo ad accettare il suo fascino e trovandone il senso”, rispose Midori. Seguì un lungo silenzio che sembrò eterno.

Il sole stava tramontando, Mitsuko fece un cenno del capo ed uscì. Le vie erano incredibilmente deserte quelle sera, aveva iniziato a nevicare e le condizioni atmosferiche avevano scoraggiato i turisti. Respirava l’aria gelida sentendo il freddo penetrarle nelle ossa e il viso che si ghiacciava mentre le rimbombavano nelle orecchie le parole di Midori “La vita ha sempre una parte di dolore, bambina mia”. Provò a trasformare quel gelo che sentiva sul viso in un momento di gioia.

“Sono viva” pensò “È per quello che posso sentire i fiocchi di neve che mi ghiacciano la faccia”. In fondo, non era poi così male. Si incamminò per un paio di viuzze nascoste e sparì, pronta ad una nuova performance che sapeva di dolce amaro. Un giorno, una delle sue rughe avrebbe avuto il nome di quella sera. Un giorno, quella ruga si sarebbe chiamata rassegnazione, ma quella sera si chiamava ancora speranza. 

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